In quest’anno, per me almeno, dedicato non solo alle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, ma anche alle celebrazioni di un artista italiano che ha lasciato una traccia indelebile di sé, non solo come grande e poliedrico artista del mondo dello spettacolo, ma soprattutto per aver saputo interpretare lo spirito dell’uomo italiano, che veramente con le espressioni della voce e del corpo ha reso così simile a come vive nella nostra terra da sconcertarci, da rimanere per sempre consegnato ad essere “l’italiano campione” nel senso del prototipo di nativo di un preciso territorio.
La scelta operata dal regista che lavorò a ritmo serrato alla ripresa del film e che aveva lunghi quotidiani colloqui col suo primattore, grande interprete teatrale oltre che regista anch’egli e creatore, assieme a Rossellini, del neorelismo italiano fu di improntare le riprese ad un forte taglio teatrale.
Tale impronta è evidenziata soprattutto dalla scelta di ricostruire gli ambienti dell’epoca limitando al minimo le riprese in esterni e lasciando che queste siano a colpo d’occhio riconducibili all’artifizio teatrale, e avvalendosi di uno scenografo al suo primo lavoro cinematografico.
La pellicola è dunque anche la testimonianza “teatrale” dell’attore Vittorio De Sica, e che testimonianza: di altissimo valore. Rammentiamo che quest’attore, dotato di una forte e naturale predisposizione alla recitazione e al canto, calcò il palcoscenico fin da giovane come professionista e del teatro fu dominatore a tal punto che la nascente cinematografia sonora lo prese subito in prestito per i teatri di posa. Ricordiamo per puro dovere di cronaca che quest’Artista fu in molte delle principali compagnie teatrali degli anni trenta e che ben presto formò una propria compagnia con Giuditta Rissone e l’amico Umberto Melnati.
Ad ogni buon conto, trattandosi di Rossellini e De Sica, di pellicola in B/N e ambientata nel 1943 è bene chiarire subito che, non ostante tutte queste “coincidenze”, per questa pellicola è impossibile parlare di Neorealismo.
Questo non solo perché la stagione del Neorealismo dista almeno 15 anni, nel tempo, da questa pellicola, ma soprattutto perché non erano questi gl’intendimenti del regista e dell’attore protagonista.
La cinematografia neorealista pur fondandosi su storie vere possibilimente accadute a persone qualunque, e la vicenda narrata da Montanelli è nata dalla sua personale esperienza della guerra, prevede l’uso di attori non professionisti e di ambienti autentici del vissuto prestati alle riprese.
In questo film non è possibile rintracciare questo: innanzitutto un manipolo di ottimi attori interpretano tutte le parti, ampie o fugaci, che creano la narrazione cinematografica ed infine le scene così perfette e realisticamente ricostruite come a teatro da essere da sole capaci di collocare questa pellicola fuori del Neorealismo in un filone di filmografia “storica” molto esatta e ricercata al quale Rossellini era ormai indirizzato.
Ancora sono da osservare le scene documentaristiche della guerra inserite nella narrazione cinematografica con aperto stridore per la differente matrice tecnica che contraddistingue le riprese.
Il regista inaugura in questa pellicola l’uso dello zoom che poi, in seguito, sarà una caratteristica tecnica che lo distinguerà.
La trama narra le vicende di un cialtrone, Emanuele Bardone, a cui piacciono tanto le donne quanto il giuoco. Dopo un avvio di carriera militare, raggiunto il grado di Maggiore è costretto ad abbandonare le armi per i suoi comportamenti e i debiti di gioco.
Arrabbattandosi attraversa l’Italia in guerra approfittando del suo fisico prestante e dell’improntitudine nel mentire. Giunti ormai vicino ai sessant’anni si trova costretto, per evitare una condanna per truffa, a fingere di essere un generale badogliano, per volere di un colonnello nazista.
Al termine della vicenda, questa debole e vigliacca figura umana, in una catarsi mortate eppur salvifica, diventa un eroe.
Questa trama calza a pennello a Vittorio De Sica, attore di teatro innanzitutto, che immediatamente si cala stanislawskianamente e si identifica col personaggio di Emanuele Bardone, una simpatica canaglia, facendone un aggiornamento di certi suoi personaggi giovanili del cinema anni trenta, che gli conquistarono il favore del pubblico e l’identificazione tout court con il Signor Max.
Il film è costruito come una scatola cinese, dalla pagina letteraria alla trama recitata teatralmente, con pochi movimenti di macchina, suggestivi primi piani e ambientato in scenografie teatrali e non in “esterni” cinematografici realistici.
Ma soprattutto questo film è una esaltazione di Vittorio De Sica interprete, un tributo al suo talento, un ritratto su pellicola di un gradissimo Artista, firmato da Roberto Rossellini.
Quello creato dal regista in questo film è un meccanismo pirandelliano dell’essere e dell’apparire, già innescato da Montanelli nella pagina scritta, ma potenziato ed evidenziato dalle immagini e dalla recitazione.
Il regista imposta una serie di rimandi che coinvolgono anche lui medesimo, che compare sullo sfondo del dialogo tra Bardone/Grimaldi e il Colonnello Muller al Kommandantur, mentre si soffia compuntamente il naso, intanto che De Sica sciorina una manfrina all’ufficiale tedesco piena di “spiritose invenzioni” pescate nel vissuto vero di Rossellini(ad esempio l’avo nella spedizione dei mille).
L’attore gioca su di un numero vertiginoso di piani paralleli, interpretativi e autentici, che sono: l’attore Vittorio De Sica; il personagio Emanuele Bardone, giocatore, bigamo e truffatore, alias Ingegner Grimaldi, Alias Colonnello Grimaldi, è da rilevare che durante la narrazione filmica, il personaggio Bardone si presenta al Colonnello Muller come Ingegner Grimaldi, di nome sempre Emanuele, identità altra ma innestata sulle generalità autentiche di Vittorio De Sica uomo; il Generale Della Rovere, capo militare badogliano, ucciso per errore dai soldati nazisti, che il Colonnello Muller delle SS vuole vivo per scardinare l’organizzazione partigiana. Sposato con la Contessa Bianca, e padre di due figli maschi (come Vittorio De Sica) ma fedele a quell’unica moglie (non come l’attore e non come Bardone).
Il film prevede, nella sua fabula, un protagonista mescolato su tre piani (De Sica, Bardone alias Grimaldi, Della Rovere) che agisce con un antagonista che in realtà nella pellicola assume anche la funzione di aiutante, mentre un altro personaggio, Banchelli, un tipografo mite condannato a morte per ragioni politiche, interpretato da un Vittorio Caprioli esatto come un orologio, ripulito dei suoi umori biliari e sarcastici; porta in se’ il seme dell’eroiosmo.
Gli infingimenti e i travisamenti non sono neppure finiti qui; culminano con la scena madre in cui il Colonnello Muller, regista della “grande sostituzione”, recita come un consumato attore una scena, veramente teatrale, per non mostrare alla moglie del Generale della Rovere il finto marito, di cui egli si serve nel carcere e che lei subito smaschererbbe.
Il crinale in cui le storie si sfaldano ad una ad una, ricomponendosi catarticamente nella morte, è rappresentato proprio dalla differente natura dei due “caratteri” che si affrontano, e cioè quello del Tedesco e dell’Italiano, rispettivamente interpretati da Hannes Messemers e da De Sica.
Il primo si sente retto e onesto, poiché pur nazista non ama lo spargimento di sangue, e l’altro, l’italiano, che sa da solo di essere un uomo di poco valore, ma che nella vita, seppure con grossolani errori, ha sempre cercato almeno di apparire migliore, e pensa di essere comunque migliore di come appare.
L’azione filmica si apre un grigio e primo mattino in una Genova autunnale, nella quale si muovono e vengono fortuitamente a conoscersi i due protagonisti.
L’Italiano sta rincasando alla chetichella, accigliato con se’ stesso, mentalmente ripercorrendo le tappe di una nottata al tavolo verde costatagli 100.000 lire dell’Avvocato Borghesio.
L’altro, il Tedesco, invece sta venendo a prendere servizio al Comando Genovese delle SS, nel suo solerte incedere è fermato dai chiodi disseminati dai partigiani, che gli bloccano la macchina.
Il primo cordialmente indica al secondo la presenza di un gommista e si ferma un po’ a chiacchierare, tanto che il Colonnello ne riporta una buona impressione.
Infatti, al loro seguente incontro, due giorni dopo, il Colonnello, Muller, subito accondiscende, senza “mazzetta” ad evitare la deportazione, del figlio dell’Avvocato Borghesio. “Vittorio”, dice De Sica, “Vittoria per Vittorio”, ancora un equivoco, un’assonanza, un’eco tra finzione e realtà, qualcosa che pare e non è, che è e non pare.
Dopo l’incontro in quel livido mattino, la cinepresa segue il personaggio che si è presentato come l’Ingegner Grimaldi sino a casa, una casa che appare un camerino teatrale in più stanze, dove lo attende, piuttosto disillusa e francamente stanca, una giovane amante platinata, Valeria, interpretata da una Giovanna Ralli bravissima, che rende le poche scene del personaggio con i giusti toni di furbizia, caparbietà, sfacciataggine ed egoismo,valori indispensabili alla sopravvivenza, massimamente in tempi da lupi come quelli nei quali è ambientata la narrazione. Nell’appartamento la cameriera chiama il protagonista “Colonnello” e, proprio durante il dialogo con Valeria, fa la comparsa in scena un oggetto che avrà un suo valore non venale, poiché è di princisbecco, ma simbolico, un anello con uno “zaffiro orientale”.
Questa gioja, come ancora si diceva in quegli anni, è un falso, ancora una finzione, la riproduzione di princisbecco di un gioiello, che l’attempato amante truffatore ha donato alla giovane platinata soubrette come anticipo di una vita altrettanto dorata e pertanto falsa per il futuro avvenire. La ragazza restituisce ad Emanuele quel falso anello, che, contrariamente all’amante, non l’ha ingannata neppure un minuto.
Il “Colonnello” cerca a Valeria del denaro o dei gioielli da impegnare, ma la ragazza non si fida più di lui e glieli nega con sarcasmo, ritornandogli però quel dono che a lei non interessa.
L’uomo allora tenta di esibire il gioiello per ricavare almeno in parte quanto ha perso al gioco, ma anche qui non ha fortuna.
Ultima speranza per lui è cercare un’amante di cui conosce i profondi sentimenti ma che con i suoi inganni sa di aver ferito profondamente. Cerca quindi Olga, una prostituta che vive nuovamente nella casa chiusa dopo che l’avventura amorosa con Emanuele è finita lasciandole il cuore in frantumi. Olga, sensibile per il forte sentimento che sempre la lega al suo amante, pur visto e conosciuto come truffatore, bugiardo e falso nei sentimenti, comprende subito la natura falsa di quel giojello, e, piuttosto che far rischiare l’amante, compra la “patacca” con le ultime 30.000 lire che le rimangono.
Peccato che questi particolari sfuggano al Colonnello Muller, che avrebbe così capito come di Bardone, alias Grimaldi non è possibile, mai, prevedere le mosse, perché, come un animale allo stato brado, agisce con diversa modalità, senza pianificazione alcuna poiché gli interessi che lo dominano, le donne e il gioco, lo fanno vivere in una girandola di “spiritose invenzioni”, al pari del Lelio goldoniano.
Così, una volta che il Colonnello Muller arresta Bardone nella flagranza di una truffa, senza molte difficoltà riesce a convincerlo a fingersi un altro per salvarsi la pelle.
Ad Emanuele piace fingersi altri da sè, proprio per quel “desiderio di migliorare” tanto insito in lui che alcune delle sue povere truffe consistono anche nell’accaparrarsi l’affetto e la gratitudine di persone, in modo da potersi autoilludere di non essere un imbroglione che si arrabatta per sopravvivere, ma un buon uomo che vuole tutti contenti, tanto da dar loro finte buone notizie dei familiari dispersi o prigionieri, tenendo, come lui stesso rileva, il dolore e la sofferenza per se’, dispensando, ahimè in cambio di pochi danari e vettovaglie, consolanti parole.
Leggendo le notizie fornitegli dal suo regista Muller, Bardone, ad ogni parola, dinnanzi agli stupefatti occhi dello spettatore, si cala alla perfezione nel personaggio: il ruolo di Generale è proprio il più consono a lui, che aveva addirittura iniziato una carriera militare andata poi a rotoli.
Nel carcere, poi, l’immedesimazione gli prenderà la mano e sui sussulti di paura che vanno da quella del bimbo che teme la punizione per aver rubato la marmellata, insita nella vita quotidiana di Bardone e con la quale ha imparato a convivere con l’arte di arrangiarsi e la PAURA, quella Grande, che prende gli uomini piccoli, normali quando odono gli effetti della guerra, quella guerra che non fa trasalire i forti e gli eroi, che non vivono per salvare la pelle ma per creare condizioni migliori per tutti.
Maestro al complesso personaggio protagonista in questo cammino verso l’eroismo è il mite personaggio di Banchelli, che col suo suicidio indica la via a Bardone. Ma una spinta forte gliela dà proprio il suo regista, l’antagonista che lo tiene in pugno e lo fa torturare per mantenere la credibilità del personaggio interpretato dinnanzi ai compagni prigionieri. Così si giunge ad una scena magistrale, dove il braccio del carcere in cui sono collocati i “politici” rosseggia e freme per i bombardamenti, tanto vicini da far impazzire tutti di paura. Tutti, e Bardone non meno degli altri, ma tanta è la partecipazione all’interpretazione, tanto l’adattamento al modello proposto, che il nostro protagonista, non coraggioso, con autorità si fa aprire la cella da un ammirato secondino e trova la forza di arringare con la sua sola voce contro il rumore della paura sua e degli altri, contro gli stridori, i tonfi e i boati dei bombardamenti, spronando tutti, e sè stesso innanzi a tutti, a vincere la paura, a dimostrarsi uomini, a credere in un mondo migliore.
Stremato dall’ardire dai suoi atti e dalle parole che ha saputo pronunciare, compreso che ormai il passo è compiuto nel gioco dello straniamento condotto innanzi e indietro al ritmo di una danza di morte, ormai Bardone, moralmente è morto, il pallido Colonnello, alias Ingegner Grimaldi è regredito sino a scomparire nel corpo ormai espurgato da ogni blandizie e da ogni ambiguità in cui si erge e si distingue maestosa una figura umana veramente degna del Creatore, come l’insegnamento di Cristo ha sancito, lontana dagli egoismi terreni, qui, con i piedi sulla terra, votata ad un destino che Dio ha scritto per noi e ad un insegnamento che prevede e contempla innanzitutto gli altri, il prossimo e non noi stessi.
Rientrato in cella, il personaggio intraprende un rituale di preghiera che si trasforma in un intimo dialogo col Creatore, che attraverso Bardone/Della Rovere, in questa trasfigurazione sta dando ancora una volta testimonianza di sè.
Nelle ultime scene il Colonnello Muller rinnova il canovaccio della sua recita con un colpo di scena: dovendo redigere una lista di prigionieri da fucilare per rappresaglia contro l’uccisione di un Federale, fa includere nella lista tutti i 6 sospettati di essere il fantomatico Fabrizio, capo della rete dei partigiani milanesi e la sua stessa creatura, il Generale Della Rovere alias Bardone.
Il Colonnello immagina e spera che, nella lunga notte che precede la livida alba dell’esecuzione, Fabrizio si disveli al suo attore e che quest’ultimo tradisca per avidità e paura.
Lo spettatore vede i prigionieri che chiusi in una stessa cella nella notte compiono, consapevolmente, tutti, quelli che presumono saranno gli ultimi atti della loro vita terrena. Solo Bardone tace, ascoltando ogni parola e ogni pensiero, rispondendo infine e risolutamente, all’appello dei condannati.
Nel tragitto dalla cella al cortile, Muller intercetta il suo “attore” e lo interroga con toni molteplici che vanno dall’amichevole, al complice, al minaccioso; ma tutto ciò che ottiene è la fotografia della famiglia del Generale, sul cui retro, in tutta fretta, Bardone, ormai completamente Della Rovere, verga poche veementi parole. Strattonatosi infine dalla ferma presa del suo complice regista, Bardone, ormai votato all’eroismo si accoda alla fila dei condannati e giunge nel cortile dove gli altri sono già bendati e legati al palo.
Dopo un’ultima esortazione ai morituri anche lui è abbatuto.