Qualche anno fa una giuria di esperti di calcio ha nominato Pelé “Miglior giocatore del xx secolo”. La premiazione era stata preceduta da molte discussioni legate all’annosa questione: chi era più forte, Pelé o Maradona? Ai napoletani la cosa non ha fatto né caldo né freddo, giusto un’alzata di spalle e un sorriso ironico. E questo non certo per disinteresse sulla questione ma perché i napoletani, tutti i napoletani, dal 5 luglio 1984 sanno che Maradona è mmeglio ’e Pelé. E lo sanno non perché qualcuno glielo ha raccontato ma perché lo hanno visto con i loro occhi, domenica dopo domenica, durante quei sette fantastici anni nei quali Diego ci ha regalato le sue magie. Perché, signori, di magie si trattava. La tecnica, gli allenamenti, le scienze motorie c’entravano assai poco con Diego, perché lui era un maestro di alchimia, capace con un semplice gesto di trasformare il piombo in oro zecchino. Come il 3 novembre del 1985 contro la Juve di sua Maestà Platini, al secondo anno dell’Era di Diego. La partita era avviata allo zero a zero, qualcuno iniziava a temere il solito graffio maligno della vecchia signora negli ultimi minuti. Maradona aveva un’infiammazione al ginocchio, al settantesimo arriva una punizione a due in area per il Napoli, la barriera si piazza furbescamente a pochi metri, Dieguito fa un cenno a Eraldo Pecci di infischiarsene e di toccargli il pallone, il romagnolo ubbidisce, Diego sfiora appena la palla, le trasmette una parabola lenta. Tacconi è trasformato in una statua di sale dal sortilegio, la palla si insacca nell’angolino, la vita riprende a scorrere a velocità normale. Uno a zero. Il Napoli ha spezzato l’incantesimo Juve.
Cercare di raccogliere in un album dei ricordi tutte le emozioni che Maradona ha regalato ai tifosi è impresa impossibile. Chi quei momenti li ha vissuti, al San Paolo o sugli altri stadi italiani, li ricorda come una ventata d’aria fresca, come una bella giornata di primavera dopo un lungo inverno. La verità è che Maradona non era amato dalla città e dai compagni perché era un grande calciatore, il più grande di tutti i tempi, ma semplicemente perché era Diego. Napoli, la Gran Madre, lo aveva adottato subito, il San Paolo era diventato immediatamente la sua casa più della Bombonera di Buenos Aires. Per tutti, da subito, era diventato l’amico, il fratello, il figlio, il fidanzato che con le sue trovate, a volte un po’ matte, ti fa sorridere, ti rende felice, spazza via una giornata grigia. Come quella volta contro la Samp. Decise che doveva colpire di testa, praticamente a filo d’erba, un pallone che tutto il resto del mondo avrebbe calciato con i piedi. E segnò. Oppure quando con un guizzo si accorse che poteva segnare da centrocampo, o ancora quando segnava direttamente dalla bandierina del calcio d’angolo. Con i suoi pallonetti millimetrici Diego disegnava traiettorie mai viste prima, stelle comete che scavalcavano il centrocampo per atterrare dolcemente sulla testa di Carnevale o di Renica che, senza offesa, dovevano fare solo da sponda per insaccare in rete.
Anche fuori dal campo Maradona era molto generoso con i compagni: ne sanno qualcosa ad esempio Gianfranco Zola, che Diego chiamava il Nano anche se erano bassi uguali (1,68). Al piccolo sardo Diego ha insegnato alcune cosette sulle punizioni e sui calci d’angolo che lo hanno reso ancora più forte. Bagni, ’o Guerriero, è sempre stato un fratello per Maradona: si dice che una stanza della sua casa sia sempre libera per quando arriva in Italia. Impossibile, per un napoletano, non conservare ricordi dell’effetto che le magie di Diego facevano sulla gente di Napoli. Un affetto che è riuscito a sorpassare addirittura l’azzurro della maglietta del Napoli, trasferendosi su quello dell’Argentina tutte le volte che Diego si esibiva con la sua nazionale. È accaduto soprattutto quando Maradona ha vinto il Mondiale dell’86, e dai quarti in poi l’Italia era già a casa. Forse nella storia del calcio mai c’è stato un rapporto così stretto e intimo tra un popolo tifoso e un divo nato a 12.000 chilometri di distanza.