Ma quanti sono i tifosi del Napoli? Impossibile rispondere, anche solo in modo approssimativo, per il semplice motivo che nessuno sa quanti siano veramente i napoletani. Napoli conta un milione di abitanti, compresi vecchi e bambini, la Campania cinque milioni, ma la diaspora dell’emigrazione di braccia e cervelli ha reso praticamente impossibile un censimento reale dei napoletani sparsi ai quattro angoli d’Italia e del globo. E sono soprattutto questi ultimi che vivono un legame viscerale con la squadra: spesso quella maglia azzurra rappresenta l’ultimo cordone ombelicale con le proprie radici, con una città che si ricorda a stento o che addirittura si conosce solo attraverso il racconto di genitori e nonni.
Due immagini su tutte: maggio 1987, anno del primo scudetto del Napoli. Little Italy: New York è tutta colorata d’azzurro, bandiere a ogni angolo, a ogni balcone. Persino i truck (i grandi camion cromati alla Duel) viaggiano con le gigantografie di Maradona sulle fiancate. La maggior parte dei residenti a Little Italy (che di lì a poco sarebbe sparita a vantaggio delle altre comunità di immigrati – cinesi prima di tutto) non parla italiano, ma solo il dialetto stentato di chi a Napoli non c’è mai stato. Eppure quella gente in quei giorni si sente profondamente legata alla “sua” città, soffre e gioisce come se vivesse a Santa Lucia. Ma non bisogna andare tanto lontano per trovare gli stessi sentimenti.
Un’altra fotografia: è l’anno del secondo scudetto, il «Giornale di Brescia» decide di intervistare tutti i napoletani “famosi” che vivono nella città della Leonessa. Nell’ordine, vengono pubblicati i commenti entusiasti del prefetto, del questore, del direttore dell’ospedale civile, di rettori, professori universitari, presidi di liceo, dirigenti comunali, oltre a generali dei carabinieri e delle forze armate. In pratica i bresciani si rendono conto che, volendo, i napoletani potrebbero organizzare senza alcuno sforzo una Gladio locale.
Ovviamente non ne avevano nessuna intenzione ma il giovane Umberto Bossi, che cominciava a farsi un nome con la sua Lega Lombarda, dovette fare qualche riflessione su una delle città più efficienti d’Italia, la cui amministrazione era però tutta in mano a dei terroni, per giunta tifosi del Napoli.
Insomma, si potrebbe concludere che tifosi del Napoli non si diventa, si nasce. Il legame fra i napoletani e la propria squadra è così intenso che c’è quasi uno ius sanguinis, uno ius soli – ovvero un diritto di sangue, di nascita – per potersi dire “patito” del Napoli. Ma non è sempre così, ci sono casi di “stranieri” anche famosi che hanno scelto i colori azzurri. A questo punto però bisogna fare delle distinzioni. Prima dell’Era Maradona chi sceglieva volontariamente di tifare Napoli, una squadra “antica” che non aveva vinto mai niente, lo faceva per un evidente spirito minoritario, per abbracciare una causa nobile, bella quanto impossibile. Era un po’ come decidere di votare il pdup o la Destra nazionale. Non si voleva vincere, ci si voleva distinguere, differenziare dalla massa, si voleva stare all’opposizione. Per sempre. Un pizzico di sano masochismo completava il quadro psicologico del tifoso del Napoli-non-napoletano. La musica ovviamente cambiò con l’arrivo del Pibe. Non era la prima volta che sotto il Vesuvio arrivava un Messia calcistico ma Maradona aveva nello sguardo una luce diversa e soprattutto era il Piede sinistro di Dio. I tifosi “stranieri” si moltiplicarono in tutto il mondo.
Un’ultima fotografia: Meknes, una delle città imperiali del Marocco. È il 1988, siamo nella Medina, un dedalo inestricabile di viuzze, mille piccole botteghe dove il sole non arriva mai. Attaccata alla vetrina piena di polvere la foto del Pibe, quella in primo piano con i riccioli al vento, che ricorda quella mitica di Che Guevara. Un condottiero che niente e nessuno sembrava potesse fermare, almeno in campo. Il negoziante si accorge di un turista napoletano e con un sorriso sdentato gli dice: Maradona, forsa Naples. Forsa.