‘A casciaforte, ‘a casciaforte,
‘a casciaforte m’hanna a dà!
Vaco truvanno na casciaforte
ma a qua’ casciere ce ‘o vvaco a dì?
Certe reliquie, certi cimeli
Si ‘e ttiene ’a fora ponno sparì!
E quanto ci sia di vero in questi ultimi versi ciascuno lo sa.
Proseguendo nell’ascolto della canzone, si giunge a trattare un argomento che, nel meridione d’Italia, è sempre vivo: un vero e proprio punto di riferimento nei momenti di crisi…
San Casimiro Martire
‘sta cascia famma venì!
Ce aggia mettere tutte llettere,
tutte llettere che mm’ha scritto, che mm’ha scritto Rosina mia!
Ribadendo, nuovamente, che lo scopo principale del possesso di una cassaforte è la custodia di beni affettivi; ma subito dopo si riprende l’elencazione dei beni materiali…
Na cartella di lire dodici
rilasciata dall’agenzia…
E ciascuno ben intende che l’agenzia è quella del “Banco Pegni”che ha sottratto qualche briciola di valore in pegno di pochi spiccioli prestati.
Ed infine si ripiomba nelle memorie con un elenco devastante…
Na maneca ‘e sicchio,
na crastula e specchio,
na corteccia di cacio vecchio e
nu fracchesciasso color cakì!
Kikiki kiri kikì!
Na bambola ‘e miccio
‘a lente in astuccio
e una coda di cavalluccio
che mi ricorda la meglio età!
Che mi ricorda la meglio età!
Tatatà taràtà tàtà!
Molte sono state le voci che diversamente e con differente interpretazione ci hanno ricordato negli anni a seguire questa bella canzone.
Primo fra tutti Renato Carosone, che ne dava una lettura direi marchiata dalla sua forte vena artistica figurativa, facendo scaturire dinanzi ai nostri occhi, ascoltandolo con la sua band, una vera e propria “natura morta”, ma non come quelle del seicento, minuziose e sbalordenti per l’attenzione ai dettagli, piuttosto come quelle dipinte da Cezanne e da Braque, quando il mondo figurativo ha iniziato a percorrere la strada della modernità.
Aurelio Fierro, che la interpretava ironicamente “ sulle righe”, con in testa la paglietta sulle ventitrè, quasi un passo indietro al povero innamorato disilluso.
Massimo Ranieri che ce l’ha resa , con quella “grazia” che gli gorgoglia in gola, come un vero e proprio “Carosello Napoletano”, nel quale la potenza della voce medica e lenisce la malinconia dell’elencazione minuta di tante miserie.
I gioielli napoletani, e non sto alludendo alla raffinatissima arte dell’oreficeria, professata a Napoli e nei suoi dintorni a livelli elevatissimi e con aspetti molteplici; per gioielli napoletani intendo tutti quei capolavori della cultura e dell’arte rintracciabili nel tessuto urbano ed umano di questa città veramente unica, che sono una enormità e riguardano ambiti anche disparati.
Edifici monumentali come il Maschio Angioino, reliquie religiose come le Ampolle settecentesche che contengono il sangue di San Gennaro, Patrono della città; una intera strada, San Gregorio Armeno, dedicata all’antica arte della creazione dei “pastori”. Un teatro come il San Ferdinando, che trattiene tra le sue mura il respiro di un grande come Eduardo, le pietre e i portoni di Via Santa Maria Antesaecula, nel Rione Sanità, dove Antonio De Curtis ha trascorso la sua infanzia; i mille luoghi descritti da Matilde Serao ne “Il ventre di Napoli”, le “Sciantose,”, Gilda Mignonette, le cui canzoni ricordiamo dalla bella voce di Marina Pagano, che esordì bambina con la sorella Angela e col padre Gugliemo nella “la posteggia”. I vicoli e i bassi che abbiamo conosciuto attraverso le parole di Giuseppe Marotta, emigrato a Milano, ma ammalato del “Mal di Napoli”. Ninì Tirabusciò e la “Mossa”, le leggende della sirena, i decumani, tracce greche saldate e trasformate con tetsimonianze ancor più arcane e misteriose: i Cimbri.
Il Vesuvio e i suoi pini oleografici, la voce potente di Enrico Caruso, una poesia irriverente: “ Strunz “ recitata da quel grande che è stato Aldo Giuffrè, i versi di Salvatore di Giacomo, Assunta Spina in persona che passeggia “pe’ Tuledo”.
E poi ancora l’aria, il muoversi della gente che cammina, il gesticolare nei mercati dei venditori e degli acquirenti, “Il Pernacchio” insegnatoci da Don Ersilio Miccio o il mestiere del “Finto morto” esercitato da Pasqualino Miele.
Tutti questi sono tesori, virtuali o tangibili, di preziosi materiali o inconsustenti come l’aria, che Napoli, come una immensa “Casciaforte” contiene mescolati, come dice la canzone, testi, edifici, poesie, ampolle preziose per devozione, cimeli dei tempi passati di materiali aurei o vili, vecchie fotografie, voci, musica, odori, sapori, polvere, immagini semplicemente ricordate col pensiero o dipinte col pennello.