Negli ultimi cinque secoli la lingua napoletana è sempre stata presente nella storia della musica, sia pure con alterne vicende.
In questo articolo cercheremo di ripercorrere i momenti fondamentali di questo processo, anche se non in stretta successione cronologica. Partiremo infatti dal momento di massima diffusione nell'uso del napoletano in musica nella prima parte del XX secolo.
Ecco quindi i punti trattati:
Per tutta la metà del ‘900 e fino quasi agli anni ’70
Nel campo della musica leggera, invece, due fattori hanno limitato e delimitato l’uso del napoletano in musica.
1) I primi contatti della musica leggera italiana con quella di lingua inglese sono stati cauti . Le canzoni venivano "italianizzate" traducendone liberatamene il testo ed adottando arrangiamenti e modi di cantare più vicini alle consuetudini italiane.
Nel ‘600 viene progressivamente accantonata la grande polifonia vocale; trionfa la melodia accompagnata che diventa ben presto il nucleo fondamentale di tutti i nuovi generi musicali: cantata, oratorio e, soprattutto, melodramma. Nella seconda metà del secolo si aprono i primi teatri a pagamento: la musica comincia ad affrancarsi dal mecenatismo affacciandosi nel mondo della libera imprenditoria. I compositori stentano a legarsi ad un solo ambiente, tendono a viaggiare, a spostarsi, a cercare i contesti migliori per presentare la loro musica. Tutto questo però richiede una lingua comune che sarà l’italiano letterario; le lingue locali, compreso il napoletano, escono dalla scena musicale ufficiale restando confinate nei loro ambiti geografici. Lo scarso interesse porta ad una produzione scarsa e poco documentabile perché affidata spesso alla sola trasmissione orale.
Le due lingue più strutturate e con maggiori tradizioni, cioè il napoletano e il veneziano, saranno di nuovo le grandi protagoniste culturali nel XVIII secolo. Il fatto è che Napoli e Venezia nel ‘700 sono le due vere e proprie capitali della musica europea. Nessuna altra città, nemmeno Parigi o Vienna, può vantare lo stesso numero di scuole musicali, compositori, orchestre, cantanti, concerti e teatri.
La consapevolezza del loro ruolo di capitale porta le due città a ridare lustro alla propria lingua locale, il che avviene a Venezia con il teatro di Goldoni e a Napoli con l’opera buffa in napoletano.
A questo punto però ci attende una sorpresa. Ci aspetteremmo infatti un cospicuo catalogo di opere in napoletano, mentre in realtà l’elenco dei titoli è piuttosto esiguo (i più famosi: "Lu frate 'nnammurato" di Pergolesi e "Le zite in galera" di Vinci).
La stragrande maggioranza di opere buffe è in italiano. Perché ? La risposta in realtà è semplice. Napoli è capitale cosmopolita; vi convergono musicisti da ogni parte d’Italia e di Europa per studiare, perfezionarsi o anche solo assistere alla frenetica vita musicale della città. L’uso della lingua locale è da considerarsi quindi un po’ limitativo visto che è lo stile napoletano e non la lingua che si vuole diffondere e imporre. Come definire questo stile napoletano? Lo si può fare sinteticamente con una citazione. C’è una famosissima aria (in italiano) di Paisiello "nel cor più non mi sento" che ha la stessa melodia di una canzonetta popolare in napoletano, "Felicella".
È stato Paisiello ad appropriarsi dell’arietta popolare o è stata quest’ultima a modellare il suo testo sulla melodia di Paisiello?
In realtà non importa. Questo esempio basta a mostrare quell’identità fra anima popolare e anima colta che costituisce la caratteristica precipua dello stile napoletano. Attenzione però: un’opera musicale non è fatta solo di arie, ci sono anche i brani di insieme, i pezzi strumentali, i recitativi e le parti di collegamento. È qui che lo stile napoletano mostra i suoi limiti perché l’autore di scuola napoletana tenderà consapevolmente o meno a trascurare tutto ciò che non sia l’espressione lirica e melodica che si concentra nelle arie. (Di alcune opere ci restano addirittura solo le arie; il resto non è stato reputato degno di essere conservato). Ci sono naturalmente grandi eccezioni, opere di squisita fattura totale, ma la verità (e la storia della musica ce lo dimostra) è che l’anima musicale napoletana è tendenzialmente lirica e non drammatica; sa descrivere ed esprimere i sentimenti e non le azioni.
Nell’ '800 il pubblico dell’opera si stanca gradualmente delle trame mitologiche e stilizzate dell’opera seria o di quelle inconsistenti e giocose dell’opera buffa. Adesso il pubblico vuole intrecci psicologici, sangue, emozioni intense e passioni violente. Tutto questo mal si adatta all’anima musicale napoletana, più portata come abbiamo visto alla contemplazione malinconica o alla giocosità burlesca.
Per tornare all’ ‘800, si può dire che avvenne allora la grande scissione: la lingua napoletana esce dalla storia ufficiale della musica per entrare in una storia a se stante, quella della canzone napoletana. La durata limitata e la struttura semplice fanno sì che la canzone possa esprimere con assoluta libertà sia la cantabilità spiegata che la vivacità ritmica. All’inizio se ne occuperanno anche compositori d’opera quali Mercadante, Bellini e Donizetti; ben presto nasceranno e si affermeranno compositori specializzati.
La canzone napoletana diventa a questo punto un genere a parte che le continue ondate di emigrazione porteranno letteralmente in tutto il mondo. Quando la lingua napoletana si affaccerà di nuovo nel mondo del teatro musicale (con Viviani) non si tratterà più di teatro in musica ma di teatro con musica.
Ai dialoghi in prosa si alterneranno canzoni che saranno però estrapolabili e fruibili anche indipendentemente dal contesto (lo stesso avviene per la sceneggiata, per il musical americano e per la commedia musicale italiana).
Dalla metà dell’ ‘800 quindi, per circa un secolo, la canzone napoletana resta assolutamente immutata, indifferente a tutte le trasformazioni sociali, tecnologiche e politiche.
Questo immobilismo può sembrare espressione di valori conservatori e borghesi ma in realtà c’è dell’altro.
Il popolo napoletano è stato sottomesso ed annesso con la forza al Regno d’Italia; Napoli ha perso il ruolo di capitale; milioni di napoletani sono emigrati in ogni parte del globo trovandosi a contatto con altre lingue, altre civiltà, altri modi di vivere. I napoletani non avevano e non hanno come gli ebrei un forte senso di appartenenza etnico e religioso; i valori, i punti di riferimento a cui si sono affidati per non perdere interamente la loro identità sono semplici e quasi prosaici: la canzone e la cucina. Spaghetti e mandolino: il luogo comune è diventato quasi offensivo ma in effetti dice una verità, Ci voleva lo scossone della seconda guerra mondiale per fare uscire almeno in parte la canzone napoletana dalla sua sognante immobilità. Lo swing e lo slow terzinato di matrice americana abbinati alla melodia e al ritmo propriamente napoletani daranno vita a prodotti musicali gustosissimi che diventeranno ben presto protagonisti nel mondo del night club. Tutta l’Italia canta di nuovo in napoletano ma durerà poco; come abbiamo visto nuove realtà sono dietro l’angolo. La canzone napoletana "americanizzata" d’altronde ha costituito un fenomeno diffuso solo in Italia.
Raccontava un amico, che ha girato il mondo suonando sulle navi, che in Australia o in Canada un pronipote di napoletani vorrà sentire in napoletano solo la canzone classica. E nient’altro.
a cura di Giancarlo Sanduzzi