Ma quali origini ha la posteggia napoletna? Si perde nella notte dei tempi. Si pensi che nel Museo di Taranto si conserva una coppa del VI secolo avanti Cristo che ha una decorazione raffigurante un convito e dei giovani che allietano il banchetto suonando la lira. Così come un’altra coppa proveniente da Vulci – questa del V secolo avanti Cristo – raffigura accanto ad un giovane che regge un piatto, un ragazzo (o ragazza) che suona il flauto.
Queste coppe, dunque, appartengono alla civiltà greca.
Anche nell’antica Roma - e questo lo sappiamo bene perché riportato in una moltitudine di testimonianze scritte o in film di ambientazione romana - i patrizi, sdraiati sui triclini, mentre banchettavano, ascoltavano la lira.
Ma già ancor prima dei Greci e dei Romani si era soliti ascoltare la musica durante i conviti, così come presso gli Egizi.
Un documento scritto che specificatamente si riferisce ai posteggiatori è l’ “assisa”, o ordinanza, del 1221 di Federico II di Svevia contro i suonatori ambulanti che, di notte, esibendosi nelle taverne, disturbavano il sonno dei napoletani.
Anche Giovanni Boccaccio, che tra il 1327 e il 1339 soggiornò a Napoli, notò che vi fossero tali posteggiatori, quel Boccaccio, perspicace e attento, che penetrò nella psicologia del nostro popolo. E qui ebbe il suo bel tuffo al cuore in S.Lorenzo. A proposito di Napoli, il grande scrittore parlava “d’infiniti stromenti, d’amorose canzoni”.
Nel 1569 i posteggiatori costituirono nella chiesa di S. Nicola alla Carità una corporazione, una specie di sindacato, che garantiva giusti compensi, l’assistenza malattie e una degna sepoltura.
Nel ‘600 vi erano a Napoli, secondo la conta del Marchese di Crispano, ben 112 taverne. Tra i cantanti più noti vi era Pezzillo ‘e Junno ‘o cecato.
Nel ‘700 spiccavano come luoghi di posteggia le “pagliarelle dello Sciummetiello” e la Taverna delle Carcioffole al Ponte della Maddalena dove si leggeva la famosa quartina:
“Magnammo, amice mieje e po’ vevimmo
nzino a che nce sta ll’uoglio a la lucerna;
chi sa se all’autro munno nce vedimmo;
chi sa se all’autro munno nc’è taverna”.
Nel mondo antico e, segnatamente, in quello classico dominava la musica rituale o religiosa. L’unica alternativa era, dunque, la cosiddetta “musica da tavola”.
Diversi musicisti destinati a lasciare traccia della loro arte, ove non riuscivano ad occupare un posto di “maestro di cappella”, si mettevano al servizio di nobili e, per una minima ricompensa, diventavano “musicisti domestici”.
Anche Mozart seguì questa trafila, ma nel 1781 egli, dimettendosi da “musicista domestico”, mentre a Salisburgo era al servizio dell’Arcivescovo Colloredo, automaticamente inaugurava una nuova stagione, quella dei “musicisti professionisti”.
All’epoca, già da tempo a Napoli, come abbiamo prima rilevato, dilagavano i nostri posteggiatori che non erano al servizio di nessuno e che venivano liberamente ricompensati dai fruitori della loro musica. Infatti, i posteggiatori, dopo la loro esibizione, “andavano per la chetta”, cioè giravano fra gli avventori con il famoso “piattino”. L’offerta non era intesa come un’elemosina, ma come un riconoscimento, anche se fatto di spiccioli, all’arte. Meglio la libertà che essere sottoposti allo stipendiuccio di un padrone.
I posteggiatori napoletani, inoltre, davano la possibilità a tutti, non solo ai patrizi, di usufruire delle loro prestazioni.
Prima di citare i nomi dei più celebri posteggiatori napoletani, mi piace ricordare che essi usavano un gergo tutto proprio, la cosiddetta “parlesia”, incomprensibile anche agli stessi napoletani. Ad esempio, il pane era chiamato “illurto”, l’avaro “schiancianese”, il pollo “pizzicanterra”, la chitarra “allagosa” o “ ‘a cummara”, il mandolino “peretta”, il violino “tagliere”, i soldi “ ‘e bane”, il vino “chiarenza”, i seni femminili “ ‘e tennose”.
(continua...)