Fare della poesia è oggi oltremodo difficile quando non appaia anacronistico o addirittura inutile.
Ma la poesia esiste, anche se arduo è il suo inserimento nel tessuto del
nostro tempo a causa della diversità di esperienze e di linguaggi che
determinano una non-intellegibilità, una difficolta, specialmente da parte
di chi, condizionato dalla convulsa problematica della vita contemporanea, sembra ignorare le chiavi della sua allegoria.
Le varie tendenze che si riscontrano nella tematica attuale hanno in comune l’obiettivo di porsi al centro dell’interesse intellettuale attraverso la fedele e devota applicazione dell’artista all’arte e questo è, come si è detto, compito ingrato, specialmente oggi in cui si vuole ridimensionare, demitizzare, la figura romantica del poeta per considerarlo piuttosto come un mezzo tra la realtà e le forze inconsce del mondo interiore.
Si ripropone pertanto oggi una revisione dell’indagine artistica secondo una tipologia attuale; ciò significa “rivedere” l’artista e reinterpretarlo alla luce dell’attuale cultura mediante il contributo delle più recenti esperienze metodologiche.
Alla luce di queste considerazioni, le liriche che questa sera ascolterete, scaturiscono da un momento ideale, quasi come un ritorno alla poesia istintiva, un adeguamento ad essa attraverso una sintesi di realtà di volta in volte metafisiche. Sono poesie dai simboli polivalenti che designano nelle loro concatenazioni qualcosa che è all’origine della condizione dell’uomo moderno. Il divorzio che separa l’universo dall’uomo-esistenza accentua la rivolta della coscienza tradotta nella lotta per l’esistenza; il momento creativo è privo di freno emozionale.
La realtà è scelta accuratamente ed è severamente adattata ad un preciso e chiaro ordine intellettuale come se attraverso questa esigenza l’autore voglia sfuggire ad uno schematismo che potrebbe inaridire la sensazione pura. Siamo in presenza di versi liberi ma liberi non soltanto nel senso tecnico della parola; versi spesso sminuzzati come briciole di sentimento sul mare della noia e dell’inquietudine; frammenti in cui si intravede il sorriso amaro di chi si beffa della realtà senza per altro scendere al compromesso della commozione. Questi accenti così disarmanti e contraddittori fanno pensare a un artista, a un uomo immerso in una sognante contemplazione della vita, senz’altra preoccupazione che quella di cogliere le sfumature e gli angoli più fragili e sfuggenti della realtà.
In alcune liriche questo aspetto sognante della realtà è felicemente sposato a una vertiginosa fantasmagoria di colori, sapori, effluvi, quasi un fantastico menù metafisico:
qualche rosa spinata
un pizzico d’iride
una premuta d’oleandri…….
In altre, il rapporto spazio-temporale si muove in una geometria rigorosa:
Quegli strani infiniti punti vaghi
Una grammatica banale……
Nel meditare su questi versi si scopre un’esperienza durissima maturata nell’urto quotidiano con la vita, una volontà messa a rischio e a prova in un superamento continuo della propria sfera esistenziale. Ma rivolta che si traduce e si sublima in accenti di autentica preghiera, come nella lirica "Aspetto che mi portino in chiesa" in cui la ricerca di Dio si tramuta in un grido accorato, spezzato di pianto.
Udrete nomi come Baudelaire, Van Gogh, Sengor, Chagal uomini di ieri e uomini di oggi, poeti, pittori, artigiani felici della parola e della materia; attraverso questi versi li vedremo rivivere e parlarci, comunicare ancora, per mezzo di queste poesie, la loro stessa poesia.
Non ci resta allora che ascoltare queste liriche; Ma è essenziale che le ascoltiamo con cuore puro per poterle accettare come il frutto prezioso di momenti di grazia, come qualcosa di vivo, di pregnante, che palpita, come tutto ciò che appartiene alla stagione viva e dolorosa dell’uomo.
Autunno
C’è una tristezza che di Settembre mi incammina
fra mille forcine di alberi a guglie
alla ricerca di uno spiraglio d’azzurro
dove l’autunno asciuga al sole di ieri.
Ed ora andiamo
Ed ora andiamo
io che t’amo e tu mio amico vento
siccome l’onda avìta, su spuma e spuma,
trasudando dal corpo l’infinito.
Verrà negli anni il senso umano di ciò che io ora abbandono.
Verrà la vita, la vera dimensione di quel che l’uomo insegue.
Io non ho altro al mondo che te mio dolce amore.
Ritorneranno i verdi e bianchi arcobaleni
ritornerà l’autunno, il gaio sospir del verno, l’alba di neve intatta,
il giusto rallegrarsi della terra.
Ed ora andiamo
io che t’amo e tu mio amico vento
Sull’uscio
Sull’uscio del tuo verde antico
ho lasciato cadere dei versi arrotolati in un fazzoletto di veroniche
poi ho atteso la notte
e quando il cielo si è abbassato fin sopra la nostra terrazza
ho aperto furtivamente la porta del giardino
e ho rubato una rosa.
Menù del vegetariano
Per primo: antipasto di begonie e vino di Capri.
Per secondo: girasoli alla marinara con contorno di ciclamini
Bordeaux e Chambertin
qualche rosa spinata e un pizzico d’iride.
Per dolce torta di primule e una spremuta d’oleandri
Il tutto per soli cento papaveri.
Che noia!
Che noia l’Inverno!
Abbiamo speso a dir poco un anno per assuefarci al sole
e già nevica.
Non è il fiore nel giardino
Vagano nel vento i tuoi occhi colorati d’uccelli
e la brezza li trasforma in acqua
piccolo folle amore di mille passeri col corpo di bambina.
Non è il fiore nel giardino ma il giardino nel fiore.
Ho pensato a te come ad un totem selvaggio
col corpo avvolto nelle lenzuola
e il volto mascherato di baci
ma ricordo dei tuoi peccati di fanciulla
soltanto un lieve profumo di mandarini
piccolo folle amore di mille passeri col corpo di bambina.
Non è il fiore nel giardino ma il giardino nel fiore.
Potrei scrivere
Potrei scrivere molto più a lungo quest’oggi
se soltanto il cielo fosse meno azzurro
e l’aria meno gravida di gelsomini
ma qui è così facile pensare alla morte
che preferisco seguire il volo degli uccelli
O tempora o mores
Sotto una pioggia di campane i bambini giocavano ai preti.
Io giocavo ai preti
e la sagrestia soffriva di piccole mani incrociate.
Odio l’odore del marmo,
il viso nascosto nel legno,
i merletti,
le gonne sotto il ginocchio.
Scrivo per un nudo ecclesiastico.
Non nascondetevi bambini nelle fessure delle chiese!
“O tempora o mores”
Ricordo queste parole sulla bocca di un santo
quando da bambino giocavo all’ultima cena.
Pensieri
Vi sono dei pensieri che rimangono chiusi nel cassetto fra la biancheria,
pensieri abbandonati tra mucchi di naftalina, insetticidi, deodoranti,
pensieri accatastati negli angoli più disparati:
sul soffitto,
sotto il letto, dovunque.
Pensieri come violette appassite nella polvere di vecchi libri
o di libri nuovi che nessuno legge,
pensieri buttati di qua e di là a caso:
nei posaceneri,
nei vasi di fiori.
Pensieri dei più disparati come un fascio di anemoni nella spazzatura,
qualcuno ancora in fiore,
altri umidi di rugiada salata
ma tutti indistintamente accantonati in un armadio come abiti smessi,
appesi dovunque in involucri di cellofane,
avvolti in carta argentata,
sospesi nell’aria.
Pensieri che si fermano,
altri che vanno alla rinfusa,
altri ancora che ci sfuggono come farfalle.
Pensieri d’importanza vitale per noi poveri ignoranti
occupati come siamo a leggere il giornale.
Preghiera Gitana
Cantate Gitani con la gola profumata di verde
parlatemi di foreste
raccontatemi di praterie dove il cavallo è Re
e il tramonto una goccia d’arena fra le stelle.
Voglio piangere da Gitano questa notte
con il capo nell’erba e mille chitarre nella mia mano
perché tutti sappiano che sono un Poeta
che aspetto la morte con gli occhi bagnati di uccelli
che tento il volo ogni notte sul mare.
Il Surrealismo
Una manciata di capelli sfiniti in un fumo viola pallido.
L’assurdo mosaico del colore si scompone in prismi luminosi:
immagini di tramonti,
bianche crisalidi,
alghe.
La leggenda del mare ha un inavvertibile sapore d’olio
là dove veloci piroghe curve sull’acqua
si perdono nella profondità della tela.
L’impressione agisce sui sensi,
la sabbia è più fine,
l’odore più dolce.
Assistiamo impassibili al delirio dei pennelli:
le labbra di un azzurro intenso.
Il Surrealismo è un gioco di bambini pazzi,
si cerca di provocare la forma al di fuori di ogni senso logico.
Piccole mani si perdono in angoli d’ombra.
Bisognerebbe abolire la geometria dalle scuole.
Qua e là dei grappoli d’uva.
L’eccessiva voracità delle tinte spaventa lo spettatore.
L’impalcatura del soffitto esplode in un’architettura di pensiero.
Siamo vicini al miracolo.
Ricordo le parole di colui che disse:
“il contrasto delle opinioni suscitato da un’opera d’arte
Indica che l’opera è nuova, complessa, vitale”.
Se tu guardi il movimento
dell’acqua
Se tu guardi il movimento dell’acqua
non aspettare che spunti la luna.
L’universo non è che un Caos inafferrabile
dove la Morte riempie tutti gli spazi vuoti con la sua miasma ambigua
e la Forma stupisce la Logica con la pretesa di somigliarci a Dio.
Se tu guardi il movimento dell’acqua
non aspettare che spunti la luna.
Il vuoto è una pietra intoccabile
e la geometria degli spazi un eccesso d’aria.
Se tu guardi il movimento dell’acqua
non aspettare che spunti la luna.
Indossa il tuo vecchio costume da marinaio e voga:
domani qualcun altro dormirà nella stanza in cui tu hai passato la notte.
Scriverò il tempo necessario
Scriverò il tempo necessario per riempire uno spazio vuoto
nell’ora in cui
il contadino ingoia la ciotola di biada
e le prostitute succhiano la loro porzione di ossigeno
agli operai incatenati all’ombra della luna.
Scriverò il tempo necessario per riempire uno spazio vuoto
il tempo necessario
perché i tuoi lunghi capelli spettinati sulle terrazze d’inverno
acquistino il sapore dell’amalgama d’argento
che morde la lastra di cristallo.
Ma sia ben chiaro che io non cerco il significato della nostra presenza
in un braccio di mare aperto che scivola sotto la poppa delle nostre navi
né nel colore di una bandiera issata sul ponte di comando
né in una rivoluzione d’ottobre
né in una serra castrata dal cemento
né in un cuore ritagliato dalla carta di un giornale.
Scriverò il tempo necessario per riempire uno spazio vuoto
arrotolato sotto l’esigua luce di un lampione a gas chiamato Sole
come un vagabondo che attende la venuta dell’inverno
per confondersi con la caduta delle foglie.
A Sèdar Senghor
Ho pensato spesso Senghor
a tutti quelli che si sono ostinati a perseguitare la tua gente
e che si ostinano ancora
imbrattando le strade di enormi cartelloni pubblicitari
di una immaginazione così poliedrica
da essere scambiati sovente per produttori di una marca di borotalco.
Ho pensato alla loro pelle lavata Senghor
con uno strano gusto di nero sulle labbra
perché penso e ripenso spesso ai bambini che si credono uomini
a quelli che giocano alla storia con le mani sporche di cromatina
a quelli che all’angolo delle strade
aspettano il primo canto del gallo nascosti nella spazzatura
a quelli che lungo il corso del Mississippi lavano più volte la biancheria
per evitare quell’odioso sapore di pelle scura
quell’odore incerto di cartilagine affumicata che impregna i loro vestiti
a quelli come loro che abituati al cielo
credono l’uomo un Dio e Dio un sogno
a quelli senza macchia
ai presuntuosi insomma
che mi fanno soffrire di ilarità e piangere di rabbia.
Ho pensato a loro come bambini Senghor
perché non sopporto il peso di una parola come: uomo
e soprattutto perché non ho mai giocato agli schiavi.
In memoria di
Vincent Van Gogh
Ad Arles
dove il sangue dei papaveri trafigge il vuoto delle farfalle
con mille spazi dipinti
e lo sforzo dell’infinito incendia la pietra rossa
di sterminati silenzi d’ametista,
nell’ora in cui il Sole esplode nell’aria bruciando le ali dei gabbiani
un suono come un respiro d’anime gementi risuona da lontano
con un’eco tremenda di disperazione.
Sveglia vecchio Van Gogh!
E’ l’ora.
La luce ha bisogno di mani d’argilla per vivere la bellezza di Dio.
Nei grandi campi di carbone
dove la tempera insegue l’angoscia sulle ali dei pipistrelli
ed i volti genuflessi nella polvere maledicono la voracità della terra
con gli occhi crocifissi nel fumo,
non vi sono parole per vivere o morire
né suoni di campana per risvegliarci
né specchi per sostenere il peso della notte
ma solo la forza della nostra pazzia per piangere la luce dei cristalli.
Sui tavoli dei caffè le prostitute benediranno i tuoi occhi
per vivere l’istante in cui consumavi i loro sguardi con la tua sete di uomo
e i girasoli torneranno a sollevare lo sguardo
per assaporare l’infinito della tua fronte nel sole.
Il vuoto è una pallida difesa d’acqua al deserto,
un istante di follia per vincere il silenzio dell’oceano in uno sguardo
senza bisogno di croci
né incensi
né drappi di seta
un mondo d’acqua per disperdere il sapore della sabbia dalle nostre labbra.
Povero vecchio Van Gogh.
Gli uomini costruiranno castelli di sabbia nella tua vigna rossa
e le grandi macchine ruotanti malediranno il sapore dell’erba
dove i tuoi occhi seminavano il riflesso dell’alba nel vento.
I grattacieli solleveranno le loro ali di bronzo al cielo
e gli uomini torneranno nelle profonde miniere
a bestemmiare il colore della loro pelle.
Sveglia vecchio Van Gogh!
E’ l’ora.
I tulipani hanno sete d’olio
ed i mattoni della tua casa bruciano il giallo delle pareti
nell’ingordigia del tempo.
Ma forse tutto è finito per sempre.
La clessidra tornerà a definire la geometria del vuoto con orologi di marmo
e lassù
dove i falchi reali intrecciano spighe d’aria nel vento
non rimarrà che un paesaggio di ghiaccio
a guardare l’azzurro della tua bara d’argento.
In morte di
Federico Garcia Lorca
A Viznar Tarde las 5 en punto
nella Plaza de Toros de Granada
ho visto sulle mani dei fanciulli
le stimmate della tua crocefissione, Garcia.
Ho visto l’Andalusia trascinare le croci.
Che preghiere di mani sul tuo corpo rosso di bibbia!
La fronte spazia il deserto con occhi dipinti,
le labbra umide di magnolie.
Non avere paura della morte, Garcia.
La Fede è solo una rosa di ghiaccio nella luce del pomeriggio
di notte è un sogno.
Verrà l’inverno sulle colline
e la neve cancellerà le orme dei tuoi passi
il respiro del mare s’inginocchierà dinanzi ai tuoi paesaggi dipinti
e folaghe e gabbiani canteranno in silenzio il sapore d’acqua salmastra,
il gusto dell’oceano, della bellezza nascosta che era nella tua carne.
Nell’arena deserta
I picadores piangeranno dai drappi purpurei gocce di sangue e seta
e le campane di Madrid
cuciranno sugli zoccoli dei tori il vuoto dei tuoi occhi.
Non devi avere paura della morte, Garcia:
i poeti non resistono più delle farfalle alla luce.
E’ triste cercare l’infinito nella materia.
E’ triste per te
Per tutti quelli come te
Per tutti i romantici Gitani che cantano:
“Quando morirò seppellitemi con la mia chitarra sotto l’arena”
“Quando morirò fra gli aranci e la menta”.
Che sforzo per addormentarsi.
Che sforzo per morire.
Che sforzo per resuscitare.
Prega il tuo Dio, Garcia
Quello di pietra
Quello di stoppa e di calce
Ascolta!
I flauti piangono con le lunghe lingue incantate
il fruscio della muleta nelle notti di luna.
Che sforzo per piangere.
Che sforzo per ridere.
Che sforzo per ricominciare.
Tremor di noci bianche e giunchi infiniti
Arcobaleni di conchiglie sulla tua bocca
Che sforzo per addormentarsi sulle mani del tempo.
Un cuscino d’ambra per il tuo cuore
Una tenue carezza d’Andalusia per ricoprire il tuo corpo.
Porterò fiori di perle per i tuoi cipressi involuti
e notturni immacolati per il riposo del tuo respiro.
Il cielo s’è appassito.
Ed io?
Che sforzo per credere in Dio.
Che sforzo per sognare la morte.
Che sforzo per liberarsi del tempo.
Ed io?
Ave Maria.
C’è poco tempo ormai.
Preparati a sciogliere i tuoi capelli nel rosso delle praterie.
Che sforzo per dimenticare il passato.
Che sforzo per baciarti.
Perché?
Sarà il profumo dell’autunno.
Non vedo.
C’è troppo Sole.
Ed io?
Addio, Garcia.
Che sforzo per pensare.
Che sforzo per cercare le tue mani.
Che sforzo per uccidere gli altri.
Che pensi?
Non c’è più nessuno con te.
Riprendi la strada.
Il mare può vivere eterno.
Tu sei appena nato.
Libertà
L’isola muore come muoiono i bambini
con le mani accovacciate nell’acqua di una pozzanghera
e un orologio di carta.
Va avanti marinaio! Soffia sulla tua barca!
Oggi il mare è gravido d’incertezza.
L’isola muore con l’uomo
quando l’uomo chiama per nome suo figlio
perché ciascuno di noi è un’isola nell’oceano
che si accosta al continente
come una donna che porge le labbra alle ferite di un amante
e ciascuno di noi ha un figlio
che il mare partorisce sotto le ali degli albatri.
Va avanti marinaio! Soffia sulla tua barca!
Oggi il mare è gravido d’incertezza.
L’isola muore come muoiono i bambini
con le mani sotto un lenzuolo di foglie
e una barchetta di carta.
L’isola muore con l’uomo
quando l’uomo chiama per nome suo figlio
perché ciascuno di noi ha un figlio
che il mare partorisce sotto l’ombra dei venti.
Va avanti marinaio! Soffia sulla tua barca!
Oggi il mare è gravido d’incertezza.
Oggi ho perduto un figlio.
Si chiamava….Libertà.
Il Poeta
Nell’istante in cui il mondo sfugge la fatica
e quando i pescatori lungo il molo
sollevano le grandi reti al cielo
nascondendo alla folla la leggenda di Anfitrite
tu potresti vederlo
camminare così a caso come un novello Baudelaire lungo la Senna
inseguendo i primi fumi dell’alba.
I marciapiedi silenziosi
Il gatto che miagola dalla macelleria chiusa
ogni cosa ha per lui un significato diverso
e masticando tabacco
sembra quasi che dica : mio Dio fa che non sorga il sole.
Un altro inverno
Un altro inverno è passato ed io con lui
giorno per giorno
assaporando l’alba
spighe di grano
e fiori.
Quegli strani infiniti
punti vaghi
Quegli strani infiniti punti vaghi.
C’è un libro che è rimasto aperto sul tavolo.
Leggete!
Napoleone era quello che era
Cesare quello che è stato.
Quegli strani infiniti punti vaghi.
Vaghi amori
Vaghi versi
Vaghi pensieri come
Io
Tu
Noi
Voi
Una grammatica banale
equivoca
superflua.
Quegli strani infiniti punti vaghi.
Fuochi fatui sotto il peso di una palpebra d’infinito
mentre la Croce ci spezza in due
e il gallo canta tre volte.
Quegli strani infiniti punti vaghi
come noi
girovaghi di professione sotto le stelle.
E aspetto
Aspetto che mi portino in chiesa
E mi dimostrino che esiste un solo Dio onnipotente
E mi convincano che Sua è stata l’idea, peraltro balorda,
d’impiantare a mezz’aria questo enorme emporio di cianfrusaglie che è il mondo.
E aspetto di vederlo apparire come ospite d’onore
sul primo canale della Televisione Vaticana
per annunziare con una perfetta dizione
e con il tono più schietto possibile
che è stato tutto uno scherzo
e che la colpa è soltanto nostra
se ce la siamo presa a cuore più del dovuto
parlando e sparlando sul suo conto
mettendogli in bocca parole che Lui non ha mai detto
e attribuendogli cose che Lui non si è mai sognato di fare
col solo risultato di complicare maledettamente le cose
già peraltro complicate
come quella strana storia delle tre persone e di sua nuora
e tutte le fesserie che siamo stati capaci di fare a suo nome
mentre Lui non ha mai chiesto niente a nessuno
e poi perché avrebbe dovuto?
E aspetto che sfogli i nostri libri e i nostri pensieri
perché sia Lui questa volta a non capirci più niente
E aspetto di vederlo scomparire all’improvviso dondolando la testa
dopo essersi accorto che, nonostante tutto,
continuavamo a tenere il naso dritto all’insù.
Sono quello che sono
Sono quello che sono
né poco più né poco meno
chitarre d’acqua ricamano un cielo folle baci
qualcuno piange sulla sorgente.
Sono quello che sono
un verso imbottigliato a singhiozzi
un sogno in tempesta
un sì accarezzato sulle labbra di un’amante.
I bambini giocano agli uccelli nell’aria
e gli uccelli ai bambini nel prato.
Chitarre d’acqua ricamano un cielo folle di baci
qualcuno piange sulla sorgente
Le poesie sono state recitate negli anni ’60 nella sede del Cine Club Napoli dagli attori:
Maria Rosaria Dello Jacono
Nello Mascia
Aldo Vetere