Il Posillipo era stato promosso in serie B e aveva bisogno di rinforzi. La serie B era una cosa seria, era veramente serie B, non come oggi che è una serie C. Vi sto confondendo le idee? Avete ragione, lo so, ma che ci posso fare. Il fatto è che io sono rimasto ai tempi in cui le cose si chiamavano ciascuna con il proprio nome e questa cosa che ora la serie B si chiama A2 e la serie C si chiama serie B sono il primo a non averla capita. Forse è la vecchiaia che mi rende insofferente o forse è un po’ di innata malizia, ma credo si tratti di un altro dei tanti tributi dovuti ad un’ipocrisia sempre più imperante.
Da sinistra: Jobo Kurtini (allenatore), Lucio Rossi,Di Mhelem, Antonio Consiglio, Dino Simonelli, Gaetano Cerbone (Presidente C.N.Posillipo),accovacciati: Ezio Buonaiuto, Guglielmo Marra, Cesare Morelli, Bruno Scaglia.Mancano : Mario Liotti, Alfonso Buonocore.
(la foto è stata gentilmente concessa da Vincenzo Palomba)
I rinforzi eravamo noi: Ezio Buonaiuto, Guglielmo Marra ed io. Tutti provenienti dalla Rari. Mi accordai per quindicimila lire al mese: ero diventato un professionista! Per la verità l’accordo sarebbe potuto essere migliore, lo capii già mentre il nuovo presidente mi stringeva la mano, ma che speranze avevo contro quel vecchio pirata che avevo di fronte? E pirata lo era certamente Gaetano Cerbone, Gaetano ‘a munnezza, come veniva chiamato per i suoi trascorsi da assessore alla nettezza urbana nella giunta presieduta da Achille Lauro, ma era un pirata eroico di tempi eroici ed era anche un grande presidente. Il presidente della promozione in A.
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Al Posillipo trovai l’allenatore che mi avrebbe insegnato a volare sull’acqua: Jobo Kurtini, uno jugoslavo, anzi un croato come è opportuno precisare oggi che la Jugoslavia non c’è più. Grande, grosso, duro e inflessibile, ma era solo apparenza, in realtà era soltanto il suo modo per tirar fuori il meglio da ciascuno di noi. E ci riusciva. Non c’erano grandi campioni tra noi, infatti, ma la squadra da lui modellata era una grande squadra.
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Con Ezio che andava su e giù per il campo, con i tiri di Guglielmo, grande “7”, forti come cagliose ( parola di cui prima o poi riuscirò a scoprire significato e traduzione italiana), e con le mie parate vincemmo il campionato. Inopinatamente, come direbbero quelli che amano le parole difficili.
Le partite cominciavano tutte nello stesso modo: con tutti noi schierati sul bordo, pronti a scendere in acqua, e Fofò Buonocore che dall’alto della tribuna, nemmeno tanto trafelato, gridava: “Eccomi, eccomi. Sono qui, sto arrivando!”
Perché lui era così: una o due sere alla settimana da sottrarre all’avviato studio di commercialista per un allenamento veloce, e una corsa in motoscafo a Capri in buona compagnia il giorno della partita. Eppure …
E finivano tutte nello stesso modo: con Franz Di Mehlen che, per una ragione o l’altra, trovava il modo di scatenare una rissa. Caro, vecchio, infiammabile Franz, dal fiato sempre tirato per gonfiare il torace, dai pochi denti e dalla curiosa parlata dura che una moscissima erre rendeva più curiosa.
Cominciammo andando a pareggiare la prima partita a Ostia contro il favoritissimo Civitavecchia e capimmo, noi per primi, che eravamo forti.
È questa consapevolezza che ti rende vincente.
Capii anche un’altra cosa: quando ti senti forte, tutti ti considerano forte. Anche gli arbitri, e questo vi assicuro che aiuta, se non altro perché ci pensano due volte prima di romperti le scatole.
Era proprio lo stesso Civitavecchia contro il quale avremmo disputato lo spareggio per il primo posto a Roma. La tensione era altissima quel pomeriggio. Fu per questo, forse, che prima della partita il loro allenatore, un certo Flores che credo ci fosse nato in quei suoi curiosi bermuda a quadretti, mi avvicinò per chiedermi, in maniera molto civile per la verità, se avessi risolto i miei problemi con Simeoni. Era successo che a Napoli, infatti, a questo suo giocatore, tanto bravo che sarebbe finito in nazionale, avevo rifilato una gomitata alla gola. Un colpo cattivo e assai pericoloso che aveva provocato la reazione dei suoi compagni con conseguente rissa. Un gesto assai brutto il mio, ingiustificabile ma forse comprensibile per chi conoscesse il momento particolare in cui mi trovavo. In un’azione di gioco lo avevo anticipato rubandogli il pallone, e lui, incazzato, uscendosene con quella per loro abituale esclamazione … “Mortacci!” mi aveva urlato. Avevo perso mia madre soltanto due giorni prima … Jobo, venendo a farmi visita, ci aveva tenuto a dire che, naturalmente, non era il caso di preoccuparmi per la partita ora, avevo altro cui pensare. Ma io non volevo pensare, no, io volevo giocare: non potevo tradirlo e non volevo abbandonare i miei compagni. No, non era questa la ragione vera. Volevo giocare: soltanto in questo modo avrei potuto buttar fuori tutto il dolore e tutta la rabbia che sentivo dentro.
Povero Simeoni! Non poteva immaginare che con quella sua imprecazione era diventato lui l’occasione che andavo, non so quanto inconsciamente, ricercando.
Non era il caso di spiegare tante cose all’uomo dei bermuda, non volevo la comprensione di nessuno né tantomeno la compassione, ma un certo senso di colpa che ancora avvertivo ricordando quell’episodio e una ritrovata, innata buona educazione imponevano non solo la rassicurazione richiesta ma anche le mie scuse.
Sulle tribune i nostri trentacinque sostenitori erano visibili soltanto per quella bandiera rossoverde che agitavano con commovente passione, sommersi com’erano dalle torme dei tifosi laziali che, evidentemente poco pratici della città, scambiando lo Stadio del Nuoto per il Colosseo incitavano i propri beniamini al grido di “Sangue, sangue”. Noi, secondo loro, eravamo i poveri cristiani destinati al massacro.
Che partita! Liotti andava avanti e indietro, inesauribile ed imprendibile, lo fermavi soltanto tirandolo per i piedi e così ti prendevi l’espulsione; sempre precisi i passaggi di Buonaiuto; inesorabili i tiri di Marra; Rossi, il vecchio Buonocore e il mastino Di Mehlen erano una barriera. Ed io? Io volavo, ve l’ho detto.
Zero a zero alla fine del primo tempo, e zero a zero termina anche il secondo. Poi un’altalena da farti saltare il cuore. Mancano poco più di due minuti alla fine e andiamo sotto di un gol. Il pubblico urla tutta la sua gioia: i cristiani al centro dell’arena sono pronti per il martirio.
Non andò così, tié!
È una bomba di Marra a rimettere subito le cose a posto. Sul cronometro sta per scoccare l’ultimo minuto…
I laziali perdono la palla in attacco, controfuga di Buonaiuto, ancora palla a Marra … gool! Ora siamo noi in vantaggio. Manca solo una manciata di secondi. Gli avversari si riversano nella nostra area alla ricerca del pareggio che ci porterebbe ai supplementari.
Forcella tira, Simonelli para, palla a Buonocore, da Buonocore a Liotti. È l’unico ad avere ancora la forza di scattare. Corri, Mario, corri! È solo davanti alla porta avversaria, si alza … tira … gool! Palla al centro … due secondi … uno … È finitaa!
Il Posillipo è in serie A!
Vincere è bello.
In Formula Uno i vincitori fanno il bagno nello champagne … Io lo feci negli sputi. Ve l’ho detto che tenevamo la capa fresca, no? Io la mia passeggiata trionfale me l’ero andata a fare, con il braccio levato e la mano chiusa a pugno, sotto gli spalti nemici. Tie’, un’altra volta, Civitave’!
Festeggiammo in una trattoria dei Castelli Romani con lo spumante e il vino dei Castelli. Che altro se no. Jobo ne bevve dalla coppa appena conquistata una bottiglia intera senza mai staccare le labbra, tra i nostri incitamenti ammirati. La strada del ritorno divenne interminabile. Il pullman, infatti, era obbligato ogni tanto ad una sosta: il vino si chiamava, a buona ragione, “pisciarello”.
Come ogni volta, fui scaricato a Piazza Trieste e Trento, che poi sarebbe Trento e Trieste, per risalire, da solo e in piena notte, fin su a Cariati, subito sotto il Corso Vittorio Emanuele. Stanco ma felice, come si dice nei temi dei bambini. Soltanto il giorno dopo avrei appreso con stupore dai giornali che ero corso subito a comprare – ben centocinquanta lire tra Mattino, Roma e Corriere dello Sport - che, al rientro a Napoli, eravamo stati accolti da tutto un circolo in festa. Il circolo in festa? Alle tre di notte? Cose da giornalisti. Da giornalisti di una volta naturalmente, per carità.