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Il napoletano : le parole di origine araba



Ringraziamo Eduardo Vitale, direttore della rivista l'Alfiere, per averci autorizzato a pubblicare alcuni brillanti e "dotti" articoli sull'origine di alcuni termini del napoletano parlato.

L'autore di questi interessantissimi interventi è Renato De Falco.
Oggi vi proporremo il primo di questi articoli, corredato da un interessante elenco di parole di origine araba.


L'inserimento nel nostro dialetto di numerosi fonemi esulanti dalle scontate ascendenze greche, latine, francesi e spagnole, è da collegarsi sia all'ampia recettività del nostro multimediale humus linguistico -cui non sono rimaste estranee le undici dominazioni straniere susseguitesi nel solo arco degli ottocento ultimi anni- sia agli intensi traffici commerciali con paesi nordafricani, favoriti dalla intraprendente marineria delle nostre contrade, ed anche alle frequenti scorrerie piratesche con conseguenti (anche se rari) insediamenti.
Illuminante, al riguardo, il coevo adagio che li confermava in specifiche località campane: "Quatto, li luoche de la Sarracina: Puortece, Crumano (San Giorgio a Cremano), la Torre (del Greco) e Resina". Ed ecco una parziale campionatura di parole di matrice araba tuttora vive nel parlar napoletano:

"BARDASCIA": è l'appellativo tipico della ragazzotta ("persona dell'età che segue alla fanciullezza", come annotava con precisione il Puoti nel suo Vocabolario domestico napoletano e toscano del 1841). La sua derivazione è da bardag, indicante la giovane schiava straniera, fatta preda di guerra o di razzia.. Il termine, che non include alcuna dequalificante connotazione, ha anche una limitata cadenza vezzeggiativa maschile (bardasciello), non correlata al sequestro di persona.

"BAZZARIOTA": remota denominazione del venditore ambulante di merci al minuto, pervenuta da bazaar, il tipico mercato orientale. Per la discutibile onestà e lo scarso impegno di tale operatore, la parola ha assunto la valenza di persona scansafatiche, poco affidabile, vagabonda e addirittura "malcreata", come definita dal D'Ambra nel proprio Vocabolario napolitano-toscano domestico di arti e mestieri del 1873. Non però in tal senso Raffaele Viviani inserì nella sua Piedigrotta del 1919 il "Carro d' 'e bazzariote".

"CANTARO" (attenti all'accento!): unità di peso pari a cento rotoli (circa kg. 90), sostituita dal nostro più ponderoso quintale. Ricorre nella colorita espressione "Fa' tre fiche nove ròtole e quatto cauze nu cantaro", riferita a chi "la fa troppo pesante".

"CARRAFA, CARRAFELLA e GIARRA": denominazioni proprie della piccola brocca in vetro dal contenuto inferiore al litro, detta garaf, rigorosamente marchiata. Dalla relativa estrema fragilità nacque il detto "Tene 'a salute d' 'a carrafa 'e Zecca", mentre a proposito di lacrime troppo facilmente o indebitamente sgorgate si commentava: "Mò scorrono 'e carrafelle".

"DRAGUMANNO": fonema ormai declinante, riferito al discusso procacciatore di affari, servizi, utilità ed altro. Gli ultimi dragumanni svolsero la loro attività nell'ultimo immediato dopoguerra a favore dei militari alleati, dirottandoli verso luoghi di piacere o di... spoliazione. Da targuman, intermediario, mediatore e anche interprete.

"FARFARIELLO": appellativo riservato da Dante al diavolo, ma ampiamente diffuso nel nostro dialetto con analogo significato: da esso nella settecentesca "Canzona 'ncopp'a latarantella" - meglio nota come Lo Guarracino - viene metaforicamente "pigliato" lo sprovveduto Alletterato per il tradimento della fedifraga Sardella. Da farfar. demonio, spirito maligno.

"FELUSSE": era uno (oggi obsoleto) degli ottantatré sinonimi nostrani del danaro, giuntoci da fulus, monete, immortalato dal Basile ne Le Muse napoletane (1635) con l'efficace aforisma "Nun se pò avere bontate e felusse".

"FUNNECO": vicolo cieco, sporco, sovraffollato, costellato da squallide abitazioni. Il "Risanamento" ne attuò le radicali bonifiche. Ad esso Salvatore di Giacomo dedicò due icastici sonetti nel 1886. Deriva dafunduq. precario alloggiamento per mercanti.

"GUALLARA": questa primaria (e pregnante) denominazione dell'ernia - di cui il nostro "abbunnante e smatafòreco" dialetto (così definito dal settecentesco commediografo Pietro Trincherà) annovera ben altri quindici appellativi - discende da hadara, rigonfiamento.

"MAMMONE": lemma terrificante, inopportunamente evocato per spaventare bambini esuberanti (specie se seguito da parasacco, contenitore recato dall'orco per inserirveli), simboleggiante un mostro o un demonio. Non ha nulla in comune con l'aramaico mamona, presente nei Vangeli di Matteo (6,24) e di Luca (16,13) nell'accezione di smodata ricchezza capace di rendere schiavo l'uomo, derivante da maymum, scimmione.

"PAPOSCIA": pantofola vecchia e deformata (ma anche sinonimo di debordante ernia scrotale), ripresa da babusc, la classica calzatura orientale con la punta rivolta all'insù.

"REBBAZZA' ": equivale a sbarrare, rinserrare, "mettere le sbarre per impedire l'ingresso" (come indicato dal Greco nel suo Nuovo Vocabolario Domestico del 1856), da ribat, corda istituzionalmente demandata a tenere saldamente chiuso e legato alcunché.

"RUOTOLO": unità di peso pari alla centesima parte del citato cantaro (e quindi a circa, gr. 900) dall'analogo rate. Ricorre amenamente nelle nostrane rotola scarze (situazioni incerte e precarie) e nella locuzione pe ' ghionta 'e ruotale (aggiunta di derrata o arrotondamento di peso liberalmente (!) concessi, ma anche nel senso di danno che si addiziona alla beffa).

"SCIARAPPA": bevanda sciropposa e zuccherina, riferita anche a vino dolce e gustoso o cosa allettante e concupita (Te piace lo sciarappiello?), da sharab, da cui anche gli italiani sciroppo, gialappa e giulebbe.

"SCIAVECA": rete da pesca a strascico, da "tirare" con faticoso impegno, donde il canzonatorio He tirata 'a sciaveca?, eccepito a chi lamenta eccessiva stanchezza a seguito di modesta fatica. Da shabaka, dello stesso significato.

"TARÌ": moneta aurea introdotta dai Normanni, particolarmente coniata ad Amalfi, resa anche come tareno. L'etimo più convincente è da dirahim, soldone argenteo, ma non può escludersi una derivazione da tariy, fresco di conio.

"ZARRO": ciottolo contro cui può inciamparsi e per estensione equivoco, abbaglio, cantonata (Piglia nuziarro), da zahr, sasso. Ridotto in forma cubica e con numeri incisi sulle quattro facce configurò il dado da gioco e dalla aleatorietà della relativa vincita sono derivati il francese hasard (caso) e l'italiano azzardo.

"ZIRACCHIO": niente a che vedere col serracchio, piccola sega dalla lama larga e dalla corta impugnatura, trattandosi di una unità di misura (circa cm. quindici) pari alla distanza intercorrente tra il pollice e l'indice della mano distesa. Come tale perviene da zeraic, spazio corrispondente a un palmo.

"ZIRO": recipiente in terracotta di ampia dimensione, orcio specificamente demandato alla conservazione dell'olio, dall'equivalente zir. Dall'alto della costiera amalfitana fa imponente  mostra di sé la c.d. Torre dello ziro, al cui interno venivano conservate ingenti quantità di olio. Non ignorando che altre parole, tuttora vegete nel dialetto partenopeo, vantano provenienze dall'inglese, dal tedesco, dal;turco e addirittura dall'ebraico, può ritenersi che la disponibilità del nostro veicolo semantico non è che un aspetto della capacità di accoglienza del solidale grembo materno napoletano, capace di fornire non solo sul piano linguistico la più solidale apertura a svariate etnie, integratesi nel suo habitat mai subendo ignominiose discriminazioni o emarginazioni di sorta.

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